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STEFANO CORBETTA racconta LA FORMA DEL SILENZIO (Ponte alle Grazie)

marzo 19, 2021

Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: STEFANO CORBETTA racconta il suo romanzo “La forma del silenzio” (Ponte alle Grazie), presentato all’edizione 2021 del Premio Strega da Lorenza Foschini

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di Stefano Corbetta

Ho scritto la prima stesura de La forma del silenzio nell’ottobre del 2017, mentre ero convalescente per un incidente a una gamba. Mi trovavo in un parcheggio dopo una serata con amici. All’improvviso, per una distrazione del conducente, un’auto con la portiera aperta ha fatto un balzo all’indietro e lo spigolo di lamiera mi ha perforato il polpaccio scaraventandomi a terra.
Dopo aver passato la notte in ospedale, sono rientrato a casa con l’ordine di restare a letto per almeno tre settimane: immobilità assoluta, pena la compromissione permanente del tendine. Nella completa solitudine della mia camera, imbottito di antidolorifici, trascorrevo le ore della giornata guardando film per neutralizzare l’immagine dello squarcio che avevo sempre davanti agli occhi e che mi causava incubi dai quali uscivo con la sensazione di non avere più la gamba. È stato in quei giorni che mi sono imbattuto in Arrival, il film di Denis Villeneuve basato sul racconto The story of your life di Ted Chiang in cui una perfetta Amy Adams interpreta Louise Banks, una linguista ingaggiata dal governo americano per cercare di aprire un canale comunicativo con gli eptapodi, extraterrestri silenziosi simili a calamari giganti che nel film si esprimavano disegnando nell’aria cerchi d’inchiostro dal significato oscuro. Diverso tempo dopo aver terminato il romanzo, mi è capitato di rivedere Arrival. Ricordo perfettamente la mia reazione di fronte all’immagine dell’eptapode mentre lancia il primo semagramma nella nube gassosa all’interno della sua astronave di fronte a una Louise Banks affascinata: quello che vedevo non era il grosso calamaro venuto dallo spazio, ma un’immagine che si era sfaldata e subito ricomposta nella scena che dava il via alla storia de La forma del silenzio. Arrival stava rivendicando la paternità sul romanzo.

Ricostruendo i fatti, grazie a un taccuino che in quel periodo tenevo sempre con me, mi sono accorto di aver guardato quel film diverse volte nei giorni della convalescenza, senza però ricordare la ragione di tanta fascinazione. Qualche tempo dopo, la figlia perduta di Louise Banks e i semagrammi degli eptapodi si sono condensati nell’immagine di un uomo e una donna che comunicavano attraverso la Lingua dei segni. Non potevo decifrare le linee disegnate in aria dalle mani, ma è come se io riuscissi a sentire la voce di quell’uomo: un bambino era scomparso molti anni prima e adesso era giunto il tempo di sapere la verità. L’uomo diventò Michele, chiamai Anna la donna e l’assenza di Leo diventò la ragione che mi spinse a scrivere il romanzo. Nelle settimane successive incominciai a pensare al bambino sempre più spesso, inutile dire che diventò un’ossessione. Lo immaginavo mentre dormiva, me lo raffiguravo seduto con le mani appoggiate sul banco di scuola, ne disegnai i lineamenti, incominciai a sognarlo.
A quel punto avrei potuto costruire la storia valutando ipotesi, cercando di imbastire una trama, ragionando su quali potessero essere i punti chiave della vicenda. Sentivo però di dover lasciare che i personaggi si svelassero. Così non ho più pensato alla storia e ho iniziato a leggere libri che trattavano di sordità (il più illuminante è stato Vedere voci di Oliver Sacks), ho contattato interpreti della Lingua dei segni, ho chiesto loro di aiutarmi, per quanto possibile, a entrare nel vocabolario di immagini e segni che dànno voce alle persone non udenti. A volte uscivo la mattina con i tappi negli orecchi e un cappello di lana in testa per aumentare l’isolamento acustico. Sentivo suoni di cui non avevo alcuna memoria, il mio corpo produceva una serie continua di aggiustamenti che si traducevano in click e respiri tagliati, e poi silenzi che sembravano il preludio allo spegnimento della vita; e io restavo lì ad ascoltarli osservando gli altri come fossero esseri non appartenenti alla mia specie. Alla sera, nel buio del soggiorno, provavo ad alzare le braccia e a dare forma a pensieri elementari con una sintassi sbagliata, ma con l’idea di arrivare alla frustrazione che si prova quando si vuole raggiungere un appiglio senza mai riuscirci. Leo stava prendendo forma e io restavo lì a osservarlo. Aveva un corpo poetico, camminava con una grazia inconsueta per un bambino di sei anni e quando muoveva le braccia, le linee delle mani tracciate nell’aria diventavano la sua voce. Aveva lo sguardo del mendicante, a volte si rabbuiava, eppure i suoi occhi illuminavano le rovine delle parole mancate. Un giorno l’ho visto arrampicarsi su una scala di alluminio con un gessetto in mano, stava disegnando una margherita sulla parete del soggiorno di casa sua, il gambo saliva dal pavimento e i petali sbordavano sul soffitto. È stata una delle poche volte in cui l’ho visto sorridere. Leo era un bambino immaginario, ma raccontarlo lo ha reso reale, o forse, con una curvatura inversa, ha reso me più intangibile, trasformandomi in lui nel tempo della solitudine in cui ero caduto.
Leo si svelava lentamente, dovevo solo lasciargli spazio, aveva un’identità ben definita e alla fine non è stato difficile raccontarlo. Anna ha richiesto invece uno sforzo di costruzione. La storia sarebbe stata raccontata dal suo punto di vista e così ho provato a immaginare quanto la scomparsa di suo fratello e il lutto non elaborato avrebbe inciso sulla sua personalità.
Nel frattempo proseguiva la mia indagine sul mondo dei sordi, che a un certo punto mi portò a scoprire l’esistenza di un fatto storico che avrebbe condizionato la vicenda in modo determinante. Nel 1880, si tenne a Milano il Congresso Internazionale sull’educazione dei sordi e i centosessantaquattro delegati provenienti da vari paesi del mondo deliberarono che la Lingua dei segni andava bandita dalle scuole a favore dell’oralismo – fatto degno di nota è che nessuno tra i delegati fosse non udente. Scoprii anche che da quel momento in poi, e per tutto il secolo successivo fino al 1982, l’oralismo diventò l’unico metodo di comunicazione ufficialmente riconosciuto all’interno delle scuole per sordi: leggere le parole sulle labbra sarebbe stata l’unica lingua ammessa, nessuna implicazione del corpo. Solo la parola li avrebbe salvati, perché in principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. 
A questo punto avevo tra le mani qualcosa che aveva già permeato i miei due romanzi precedenti: il rapporto tra corpo e identità. Ma se ne Le coccinelle non hanno paura e Sonno bianco il limite del corpo era di carattere endogeno (la malattia), ora mi trovavo di fronte a una costrizione esterna che negava la possibilità di esprimersi, e questo mi avrebbe portato necessariamente a una riflessione sul linguaggio. La storia, inoltre, abbracciava il silenzio (un tema centrale in Sonno bianco) e lo affrontava, svelandolo, in una duplice valenza: da un lato lo rappresentava come un luogo da abitare e dentro il quale raccontarsi, dall’altro questa accezione positiva veniva contrastata dal bisogno di uscire da quello stesso silenzio per riappropriarsi dell’identità negata.
Ancora una volta mi accingevo a raccontare di un’assenza, e di nuovo dovevo interpellare la scienza per poter dare credibilità alla mia storia – è accaduto anche con Sonno bianco, quando ho cercato di capire quale fosse lo stato della ricerca nella misurazione della coscienza in persone ridotte in stato vegetativo. Ogni volta, l’acquisizione di informazioni mi ha permesso di indagare le immagini da cui sono partito, aiutandomi a dare loro respiro, ma sempre affidandomi, almeno nella prima stesura, all’idea che anche nella scrittura, così come nel jazz, l’improvvisazione abbia il potere di illuminare il punctum barthesiano che supera l’immagine stessa e genera storie. A volte penso che mi piacerebbe costruire una trama con la dose di razionalità che provo a mettere nelle scelte della vita, anche se poi sono convinto che le decisioni che la cambiano, il più delle volte razionali non lo sono affatto.
Così è nato La forma del silenzio, la storia di un bambino che non può sentire e di una donna con il suo bisogno di verità, di una morte casuale, di un ritaglio di giornale nascosto dentro un armadio, di un artista di bottega che plasma forme in solitudine, l’immagine speculare di me, quella che volevo nascondere.
Senza Luigi Spagnol il romanzo non avrebbe questo titolo che in modo così profondo e poetico coglie l’essenza di questa storia, e non avrebbe la copertina di un bellissimo dipinto di Vincent Xeus, Child of the Ocean. Semplicemente, senza di lui, La forma del silenzio non sarebbe ciò che è oggi, e in fondo credo di poter dire la stessa cosa di me.

(Riproduzione riservata)

© Stefano Corbetta

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La scheda del libro: “La forma del silenzio” di Stefano Corbetta (Ponte alle Grazie)

Leo ha sei anni. È nato sordo, ma la sua infanzia scorre serenamente. Con la sua famiglia, Leo parla la Lingua dei Segni, e quella degli affetti, che assumono forme inesplorate nei movimenti delle mani dei genitori e della sorella Anna. Ma è giunto il tempo della scuola e Leo viene mandato lontano da casa, a Milano, in un istituto che accoglie bambini come lui. Siamo ai tempi in cui nelle scuole è vietato usare la Lingua dei Segni. All’improvviso per Leo la vita diventa incomprensibile, dentro un silenzio ancora più grande di quello che ha vissuto fino a quel momento. Poi, in una notte d’inverno del 1964, Leo scompare. A nulla servono le ricerche della polizia: di Leo non si ha più notizia. Diciannove anni dopo, nello studio della sorella Anna, si presenta Michele, un compagno di Leo ai tempi della scuola. E inizia a raccontare la sua storia, partendo da quella notte d’inverno.

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Stefano Corbetta è nato a Milano nel 1970. Alla professione di arredatore di interni ha affiancato una lunga esperienza come batterista jazz, per approdare poi alla scrittura. Ha pubblicato due romanzi: Le coccinelle non hanno paura (Morellini, 2017) e Sonno bianco (Hacca, 2018). È stato incluso nell’antologia Lettera alla madre (Morellini) e nelle raccolte di racconti Polittico (Caffèorchidea) e Mosche contro vetro (Morellini). Il suo sito è http://www.stefanocorbetta.com

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