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FAME BLU di Viola Di Grado (La nave di Teseo) – recensione

aprile 2, 2022

“Fame blu” di Viola Di Grado (La nave di Teseo)

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Il nuovo romanzo di Viola Di Grado. Metafora del corpo, del linguaggio, dell’amore.

di Daniela Sessa

Era appena uscito Attraversando il Bardo e Franco Battiato nell’afa estiva della vecchia Tonnara di Marzamemi parlava al pubblico del nostro né nascere né morire, della molteplicità che fa immensa la dimensione dell’esistenza, della reincarnazione come una freccia di corpi puntata verso il cielo. A Shanghai nel distretto di Hongkou negli anni Trenta fu costruito un mattatoio, dove oggi si possono visitare negozi alla moda e centri culturali. In questo “tortuoso labirinto modernista. Fuori una grazia modernista, dentro una psicosi di astrazioni e di cemento” due ragazze tracciano il confine tra l’eros e la morte. Sul pavimento c’è il corpo vivo di una di loro, una ragazza romana volata in Cina a insegnare italiano mentre l’altra, Xu, la morde: un’ostia, un agnello offerto al confine non troppo netto tra qui e l’altrove. Sarà un attrito della memoria o un’eco di visioni ma la tonnara e il mattatoio, luoghi dove si scannavano innocenti e ora offerte di svago per i vivi, le due ragazze scannano in due l’io come Battiato lo raccontava lì quell’estate: “questo aggregato di processi psichici pauroso, disperato, aggressivo opportunistico manipolante e troppo di rado gioioso”. Due ragazze (che sono una o forse tre o quattro: ci sono anche Kelly e, da qualche parte, Ruben) pronte a dilaniarsi, amarsi, violarsi, rifiutarsi, cercarsi, afferrarsi, affamarsi e divorarsi. Per le strade e i vicoli, dentro le case e i bar, all’ombra dei grattacieli di una Shanghai blu. Nel mattatoio di Shanghai si consuma la rasposa metafora che è il nuovo romanzo di Viola Di Grado “Fame blu”. Metafora del corpo, del linguaggio, dell’amore.

Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”, scriveva Ernst Jünger e di dolore sono fatte quelle due giovani donne. Ontologie di sofferenza o liquami psichici? Corpi o ectoplasmi onirici? C’è che quando Viola Di Grado costruisce una storia, tu vedi una matita su un grande foglio da disegno che traccia linee, curve, intersezioni, forme geometriche dai contorni traballanti, una mappa scombiccherata e ogni tanto un occhio: un panottico compassionevole per i goffi tentativi dei personaggi di trovare la via d’uscita (dall’amore, dalla paura, dal dolore, dalla vita, dalla morte) dentro quel labirinto. Viola Di Grado prima di trasformare i tratti in parole me la invento così: un Escher verbale, un’artista capace di fare reale il sogno, di mostrarlo con tutti i suoi affastellamenti di immagini, con tutte le sue coerenti incoerenze. “Fame blu” è il disegno di un sogno, un percorso a tappe fin dentro quel mattatoio dove, come in una scena cyberpunk, il sogno si dilegua perché suona la sveglia. Però, al momento giusto. Un romanzo fatto di pezzi. Trenta. Trenta brandelli del corpo e della storia, per un mondo più onirico che visionario. La storia è il corpo da mordere e far sanguinare, più di quello ferito e contuso della voce narrante. Xu morde i capezzoli di Xin e Viola morde la credulità del lettore. Fino a fargli credere che stia accadendo davvero tutto, che la ossuta ragazza vestita da volpe sia reale e non una proiezione onirica disturbata e che basti una pillola gialla a segnare il confine tra l’allucinazione e la realtà. Quel confine ha un nome, Ruben e un colore, blu. Ruben è morto e la sua gemella non riesce a staccarsi da lui: lei si assume i progetti del fratello, vive in Cina al suo posto o meglio cerca il suo posto nel mai bucato condominio amniotico. C’è tutta la plausibilità di una storia di gemelli, c’è la plausibilità di un percorso della giovane donna a ritroso verso il male e la sofferenza, c’è pure un plausibile amore danneggiato dalle stratificazioni dell’abbandono e della violenza che generano altro abbandono e altra violenza. Il doppio, tema che irrompe nella letteratura con il sogno chisciottesco, è nello specchio onomastico con cui la protagonista si dà la nuova identità Xin (la n è di Ruben?). Ma poi tutto avviene per effetto stroboscopico, blu. Shangai è blu come gli occhi di Ruben. Shanghai “ti entra nella testa”, è “un esubero d’immaginazione”, slabbrata, arrogante, schizoide e favolosa, “un accumulo, come in un sogno che sbriciola i traumi su ricordi casuali, mischia i corpi ai simboli e ai film in tv”, è “Cina candeggiata fino a diventare Europa”.  Come in un sogno o il sogno stesso, lo spazio del sogno. Shanghai visitata dagli occhi di Viola Di Grado è un ossimoro di scintille e buio, in ogni caso blu, il blu goethiano che spara in faccia la luce della malinconia e della tristezza. Xin è la versione luttuosa e grassa di Riley Andersen, la ragazzina di Inside out alle prese con la tristezza, la più determinante delle sue emozioni? L’arbitrarietà e il simbolo sovrastano il romanzo di Viola Di Grado che costringe il lettore ad avventurarsi in una vera e propria foresta urbana di significati.  Senza mai perdere di vista che, dopo lo splendido “Fuoco al cielo”, Viola Di Grado racconta un’altra storia d’amore. E c’è questo che spiazza nella scrittura di Viola Di Grado: l’innesto, stridente e in apparenza ossimorico, dell’amore nel buio. Perché anche nel buio e in ragione del buio (soffocante quanto lo smog di Shanghai) l’amore è il senso. “Fame blu” è un romanzo d’amore.  Un amore che si fa spazio nell’ingombro dei corpi. Non a caso l’esergo riporta una frase del poeta messicano Octavio Paz. Nel suo “Labirinto della solitudine” Paz scriveva “le mani inventano un altro corpo al tuo corpo”, una lezione che risuona pastosa e roca in questo romanzo. L’amore restituito al corpo. “Sapeva che la mia mente era molle come il mio corpo”. Al corpo che resta dopo la morte, al corpo che è l’unico destinato a sentire perché ha almeno trenta pezzi che lo consentono, al corpo che ritorna dentro altri corpi (anche in una prospettiva orizzontale, non battiatiana) è dedicato questo romanzo. Sensuale e cruento. Umido come i corpi che fanno sesso.

Poi c’è un altro corpo dentro “Fame blu”. E’ il corpo del linguaggio. Se questo romanzo fosse una scatola cinese, ci sarebbe da capire se lo svisceramento del linguaggio sia la scatola esterna o l’ultima, quella che regge tutte le altre. “Il linguaggio non dovrebbe uscire dallo stesso buco da dove esce il vomito e lo sputo” pensa Xin. Una frase impoetica nella quale (ancora un accumulo?) esplode una verità non rassicurante come dovrebbe essere ogni parola usata nella letteratura. Di questo Viola Di Grado è maestra. Ancora una volta la scrittrice folgora con una prosa scabra e ricca assieme, accurata e vorticosa. L’originalità di “Fame blu” è il discorso sul linguaggio, un saggio di semiotica dentro un romanzo, impastato nella finzione quando racconta degli ideogrammi “Mi spogliavo meccanicamente, con l’ordine scelto da Xu, che era preciso quanto quello in cui va tracciato ogni ideogramma”, quando fa coincidere la perdita del corpo del fratello con la sfiducia nelle parole, quando lo riduce a suono in due righe di Xu, quasi un calligramma; oppure quando racconta la cosiddetta lingua marziana dei cinesi su internet con i numeri al posto delle frasi. Ma è linguaggio anche il racconto dei miti e delle favole della tradizione: lo capisce, il lettore avveduto, che qui la matita è saldamente nelle mani del disegnatore.

Nota finale. “Fame blu” è il nuovo romanzo di Viola Di Grado. Forse alla recensione sarebbe bastata solo questa frase. A proposito di attrito tra parole e corpo delle cose: nuovo non indica il tempo, ma la qualità. Nuovo perché Viola Di Grado ha scritto un romanzo nuovo. Di questi tempi è la vera rarità.

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La scheda del libro: “Fame blu” di Viola Di Grado (La nave di Teseo)

Fame blu - Viola Di Grado - copertinaDopo aver perso il fratello gemello, un’italiana solitaria lascia Roma e si trasferisce a Shanghai, la città dove lui sognava di vivere e aprire un ristorante. Lì, mentre insegna italiano ai cinesi, incontra una ragazza enigmatica: Xu. Anche Xu è in fuga da un passato turbolento: un padre violento, una madre evanescente, una famiglia numerosa che la voleva maschio. Accomunate da una solitudine che somiglia a una fame implacabile, le due ragazze si avvicinano sempre più l’una all’altra, divise tra il bisogno di affetto e la tentazione oscura di superare il limite oltre il quale il linguaggio si disgrega e l’eros diventa divoramento. Tra fabbriche tessili abbandonate e mattatoi degli anni ’30 scoprono una dimensione estrema in cui mordersi, appropriarsi dell’altra, è parte essenziale del rito amoroso.
In una Shanghai tentacolare e aliena che contiene ogni altra città e ogni altra storia, in cui le culture e i simboli dell’Asia si mescolano all’Europa, la ricerca dell’amore diventa un percorso vertiginoso in se stessi che annienta ogni tabù, ricordandoci i nostri sogni più bizzarri e potenti.

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Viola Di Grado (1987) è l’autrice di Settanta acrilico trenta lana (2011, vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima) e Cuore cavo (2013, finalista al PEN Literary Award e all’International Dublin Literary Award). Con La nave di Teseo ha pubblicato Bambini di ferro (2016) e Fuoco al cielo (2019, vincitore del premio Viareggio Selezione della giuria). Vive a Londra, dove si è laureata in Filosofie dell’Asia Orientale. I suoi libri sono tradotti in diversi paesi.

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