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TEMPESTA IN GIUGNO di Irène Némirovsky (Adelphi)

giugno 24, 2022

“Tempesta in giugno” di Irène Némirovsky (Adelphi)

[Traduzione di Laura Frausin Guarino, Teresa Lussone. A cura di Teresa Lussone, Olivier Philipponnat]

Il sogno della disfatta torna in libreria. Pubblicata la versione inedita di Suite francese, il capolavoro della scrittrice ebrea morta ad Auschwitz

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di Francesca Coppola   

«La Primavera, con le sue notti luminose, si faceva beffe della prudenza umana. Mentre la Senna pareva concentrare su di sé ogni sparso chiarore, catturarlo e farlo danzare nei suoi flutti. Dall’alto doveva sembrare un fiume di latte». Ma nel solco della stagione del risveglio a farsi strada è anche la guerra. Si insinua rapidamente, a ogni passo, disposta a profanare persino gli equilibri più saldi nel mezzo di una Tempesta in giugno (Adelphi, 2022) che non concede scampo. La nuova edizione di Suite francese, capolavoro di Irène Némirovsky pubblicato nel 2005, è di recente tornata in libreria in una veste filologicamente elaborata, arricchita da quattro capitoli inediti, riproponendo una Parigi oramai perduta nelle pieghe della storia.
Il caotico giugno del 1940 è difatti un esodo di anime – borghesi, intellettuali, cortigiane, madri eroiche – alla disperata ricerca del proprio destino e, in ultima istanza, della salvezza. Non poche sono le differenze tra le vicende di questi personaggi e i protagonisti della prima stesura manoscritta della Suite, quella che le figlie dell’autrice di Kiev trascinarono amorosamente con sé, nello spazio angusto di una valigia, durante la fuga dall’invasione nazista. In questa nuova Tempesta – magistralmente riscoperta da Teresa Lussone (ricercatrice in letteratura francese presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”) presso l’IMEC (Institut Mémoires de l’édition contemporaine), curata insieme a Olivier Philipponnat e Laura Frausin – l’affresco brutale, ma al contempo ironico e dolce della «disfatta» restituisce al lettore l’ultimo dono di Némirovsky e il sogno, coltivato instancabilmente, di un romanzo corale, che doveva comporsi di cinque parti ma che rimase, come è noto, incompiuto. Rileggere queste pagine, la cui genesi è travagliata tanto quanto la vita di chi le scrisse – strappata alla famiglia perché ebrea l’autrice morì di tifo, ad Auschwitz – è un’esperienza a metà strada tra l’epifania e il déja vu. Ma è anche, come osservato da Lussone nella postfazione al testo, un modo per attraversarlo, coglierne gli spazi interstiziali, capire «come e perché Tempesta in giugno è stato riscritto».
A fuggire dalla capitale è ogni classe sociale possibile. Dalla famiglia borghese dei Péricand, con tanto di gatto Léonard al seguito: la loro partenza è ripetutamente ritardata dai capricci del vecchio Péricand, invalido e costretto su una sedia a rotelle; ai due modesti impiegati di banca, Jeanne e Maurice Michaud, abbandonati all’ultimo sul ciglio della strada dal loro direttore, Corbin, e costretti a incamminarsi a piedi verso Tour. Segue il collezionista di porcellane terrorizzato all’idea di separarsi dai «suoi pezzi più preziosi»; uno scrittore dall’ego smisurato, Gabriel Corte, in compagnia della sua vanesia amante Florence: il furto di cui sarà vittima – la priveranno di un succoso cesto di provviste – non la distoglierà dall’attaccamento ai beni di lusso, al punto da preoccuparsi della sorte di collane e zaffiri più che della fame imperante.
Il filo della vita di ognuno si dipana lungo una marcia dolorosa abitata da macchine che «arrivavano una dietro l’altra, piene zeppe, sovraccariche di bagagli, di carrozzine e di gabbie di uccelli, di casse e di ceste portabiancheria, ciascuna con il suo bravo materasso solidamente fissato sul tetto. Erano come tante fragili impalcature che vacillavano e gemevano, e sembravano avanzare fino alla piazza senza l’aiuto del motore, portate dal proprio peso giù per le strade leggermente in pendenza». Ma sono anche vite che si incrociano e che, più tristemente, si sfiorano: come quella degli impiegati Michaud alla ricerca del figlio Jean-Marie. Ferito, tra i soldati distesi su un camion di passaggio, il suo corpo è nascosto da un cassone troppo alto per poter essere visto. Sfilano, ancora, in questa via crucis senza tregua, suore, individui incattiviti dalle circostanze, una «vecchia prostituta dai capelli arancioni, scarmigliati, la fronte bassa e truce, gli occhi bistrati», donne che fuggono dai bombardamenti e che «in preda al panico gettavano via i loro figli».
Ogni capitolo è un quadro prezioso che incornicia, con sguardo in presa diretta, tutte queste storie. La tecnica è quella del montaggio cinematografico: a ogni inizio ritroviamo, sempre, i fuggitivi laddove li avevamo lasciati. Tutt’intorno, la natura continua a fiorire incessantemente, seguendo il suo corso rigoglioso all’insegna di un ossimoro che non si esprime a parole, ma in immagini. Così, alla calma apparente della vita che scalda succede la morte più virulenta raccontata con uno stile asciutto, compatto, prodotto di correzioni e riscritture, di interi frammenti cassati per aggiungerne di nuovi: Némirovsky è decisa a modellare, nel tempo che le rimane, la «lava incandescente» che ha tra le mani. Lo farà tutte le mattine prima dell’arresto, andando a scrivere seduta su una coperta, in campagna, circondata da squarci di luce, e di genio: «Era una sera mite e dorata, senza un alito di vento, non troppo calda, la fine di una giornata stupenda, e un’ombra deliziosa si allungava come un’ala sui campi e sulle strade… Dal bosco vicino veniva un leggero profumo di fragole. A tratti lo si coglieva nell’aria resa irrespirabile dalle esalazioni di benzina e di fumo. In lontananza un fiume scorreva attraverso i campi, disegnando un bel tratto sinuoso che si perdeva verso sud».

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La scheda del libro: “Tempesta in giugno” di Irène Némirovsky (Adelphi)[Traduzione di Laura Frausin Guarino, Teresa Lussone. A cura di Teresa Lussone, Olivier Philipponnat]

«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Ci­tati «possedeva i doni del grande roman­ziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di Suite francese in Italia) hanno scoperto, e amato, le sue opere, questo libro sarà una sorpre­sa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» – dattiloscrit­ta dal marito, corretta a mano da lei e con­tenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati – del primo dei cinque movimenti di quella grande sin­fonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavo­rando nel luglio del 1942, quando fu arre­stata, per poi essere deportata ad Auschwitz. Una versione inedita, e differente da quel­la, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attra­verso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe de­votamente decifrato. Qui, nel narrare l’e­sodo caotico del giugno 1940, e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il desti­no nel suo ambizioso affresco – piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vane­si, uomini politici, contadini, soldati –, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta; non solo: ricorrendo alla tec­nica del montaggio cinematografico, limi­tandosi a «dipingere, descrivere», soppri­mendo ogni riflessione e ogni giudizio, con­ferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto – e riesce a trattare la «lava incan­descente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.

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