ABITUARSI ALLA FINE – REQUIEM PER UN UOMO DISPERSO
, di Antonio Bastanza
Il Foglio Letterario, 2012
Intervista a cura di Claudio Morandini
“C’eravamo io e Leo e Leila e Paolo e tanti altri, c’erano Giulio Casale e Paolo Benvegnù con le chitarre, Emidio Clementi al basso e Manuel Agnelli alla voce. E c’era Lindo Ferretti a officiare messa davanti a una platea di freak e artisti di strada”.
Un uomo è in fuga dal suo lento mondo provinciale, dal dolore, dall’insoddisfazione, da quello che non c’è. Le uniche certezze da cui sente di poter ricominciare sono gli amici lontani. Così inizia il viaggio per “abituarsi alla fine” di una vita che sente fallimentare, un viaggio fatto di isolamento emotivo, lividi, soffitti sconosciuti, voglia di arrendersi – alla ricerca, forse, della rivelazione che quello che cerca, in fondo, è nascosto in ciò che crede di avere perduto.
Antonio Bastanza è nato a Cosenza nel 1975. Cura il blog piccolidisturbibipolari.tumblr.com e collabora con Mad Noises, collettivo artistico della sua città. “Abituarsi alla fine” è il suo primo romanzo.
CM – I capitoli di “Abituarsi alla fine” sono tracce, come in un CD, e ogni traccia è accompagnata da citazioni dei testi di canzoni emblematiche (per l’io narrante, e anche per te, immagino). Quanto ha contato la musica nella composizione del romanzo?
AB – Ne è parte integrante, oltre che fonte ispiratrice a tutto tondo. Le canzoni che vengono citate all’inizio di ogni capitolo sono strettamente legate alle parole del capitolo stesso, come ispirazione o come accompagnamento durante la scrittura. In realtà “Abituarsi alla fine” è la versione ultima di un’idea, quella di scrivere di musica senza dover parlare di musica in senso stretto, che mi accompagna da sempre. Mi spiego meglio: trattare di musica, intendendo con questo fare delle valutazioni che siano legate alla qualità della musica stessa, non è una cosa per tutti, credo debba essere lasciata a chi tecnicamente e culturalmente sa dell’argomento in questione più di un semplice ascoltatore. Scrivere di musica invece per me è scrivere di emozioni e idee, di immagini e di proiezioni della mente, di respiri e di gesti. Non è detto che, scrivendo di qualcosa ispiratomi da una canzone, io debba necessariamente comporre qualcosa di attinente alla canzone stessa. Per me conta molto di più l’empatia, le sensazioni che scaturiscono dall’ascolto di un pezzo, che apprezzare un assolo o un virtuosismo, dato che tecnicamente ne so ben poco e certe sfumature magari non so coglierle.
Mi piace anche l’idea che le canzoni che ho citato nel libro possano essere usate come una sorta di colonna sonora ideale, che non vuol essere l’unica possibile, perché è giusto che ognuno di noi possa costruirsi un accompagnamento adeguato ai propri gusti e magari agli stati d’animo che scaturiscono dal testo.
E poi, da maldestro aspirante bassista quale sono, ho sempre avuto il sogno di poter realizzare un disco, e “Abituarsi alla fine” in fondo è il disco che avrei registrato se ne fossi stato capace.
CM – Quanto ha contato nel creare quel tono particolare, quella prosa che spesso sembra un’estensione del testo di una canzone?
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