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ATLANTE DEGLI ABITI SMESSI – intervista a Elvira Seminara

Maggio 27, 2016

ATLANTE DEGLI ABITI SMESSI – intervista a Elvira Seminara

di Massimo Maugeri

Atlante degli abiti smessiElvira Seminara, giornalista e pop artist, vive ad Aci Castello: una bella località sul litorale catanese. Ha pubblicato libri tradotti in diversi paesi. Tra gli altri segnalo: per Mondadori, L’indecenza (2008); per nottetempo Scusate la polvere (2011) e La penultima fine del mondo (2013). I primi due romanzi sono stati messi in scena nel 2014 e nel 2015 dal Teatro Stabile di Catania.
Per Einaudi, nei mesi scorsi, è giunto in libreria Atlante degli abiti smessi: uno dei romanzi più originali pubblicati negli ultimi anni.

Elvira Seminara ha nel suo dna l’attitudine specialissima di riutilizzare in chiave artistica “cose” giù usate, che vengono dunque “ri-create”, “ri-generate”: caratteristica peculiare che trova riscontro anche nelle parole.

Ho avuto il piacere di incontrare Elvira per questa chiacchierata…

– Cara Elvira, partiamo dal titolo di questo nuovo romanzo che è molto suggestivo: “Atlante degli abiti smessi”. In che modo gli abiti che non si utilizzano più possono tracciare una sorta di mappa? E in che modo questa mappa può trasformarsi in narrazione?
“Essere è tessere. Non facciamo altro, tutta la vita, che imbastire storie, ricamarci sopra, strapparle e ricucire, tagliare o rattoppare. Diciamo tessuto per dire sia stoffa che pelle. Questo atlante è una folle mappa che una madre disegna e consegna alla figlia per insegnarle a vivere al meglio, a distinguere la felicità – e trattenerla – anche quando non è apparente. Ma è una mappa labile, appunto, visionaria e trasformativa, che si dipana nei territori minimi e solitamente invisibili. Come a riempire di senso e colore gli spazi bianchi lasciati dai cartografi.”

– Che ruolo rivestono i vestiti in questo itinerario ?
“All’inizio la madre ne fa un inventario da spedire alla figlia lontana, per ricucire -col dono e la parole- il rapporto lacerato con lei. Ma il catalogo ben presto diventa altro, è una vertiginosa lista borghesiana inarrestabile e incongrua, e gli abiti sono modelli del vivere, materia che si reincarna. Più che vestiario, insomma, un bestiario. Insieme tragico e (ir)ridente, incolmabile. Gli abiti assumono vita propria, si confondono anzi generano storie e persone. E il catalogo stesso è una forma di (r)esistenza, che la donna recita ogni giorno, a più voci, per rinascere assieme alla figlia.”

– Parliamo di questa madre, dunque: Eleonora, la protagonista del libro. Che tipo di donna è?
“Come le altre protagoniste dei miei romanzi, Eleonora è una figura del transito, colta in un momento fragilissimo della sua vita. E’ al confine: fra ciò che non c’è più e quello che non è ancora. Dunque è insieme pesantissima e leggera, tragica e irridente. Si guarda indietro per capire e non per piangersi addosso, sposta la linea del presente un po’ più in là. Vuole una seconda vita, stavolta cucita addosso, per non sbagliare taglia. Mi piace sempre descrivere le svolte e pieghe di un personaggio dall’interno, dai minimi spostamenti del suo sguardo alle variazioni del passo e della postura, di cui nemmeno ci accorgiamo quando cambia il nostro equilibrio. Per questo ambiento sempre le mie storie in un arco di tre mesi, uno spazio breve ma sufficiente per ogni cambio di rotta. La mia lingua madre è la soglia.”

– Il romanzo è ambientato in un passato recente che però, da un certo punto di vista, quantomeno da quello della comunicazione, sembra distante un secolo (o forse più). Cosa puoi dirci a riguardo?
“La storia si svolge nel ’92 tra Firenze e Parigi. Dunque siamo in un tempo ante-Internet (che arriverà fra due anni) dove il cellulare è ancora un lusso di pochi, e in assenza di telefono fisso devi ricorrere a gettoni e cabina telefonica. O a lettere e cartoline, se l’altra persona come in questo caso non risponde. C’erano allora sentimenti oggi rari come l’attesa (e il desiderio), e la distanza aveva ancora una sua durata fisica, e la mancanza un suo peso quotidiano, corporale – tutte emozioni oggi impensabili per noi. Sono passati solo 24 anni, ma nel nostro modo di abitare il mondo, e di consumare tempo e spazio, è cambiato tutto. Non solo le nostre relazioni. Quando, per l’editing, ho riletto il romanzo, ho visto con ebbrezza, sorpresa e turbamento l’enorme distanza fra ieri e oggi. Era un’altra era. All’improvviso mi è sembrato di aver scritto un romanzo storico. Io, che li detesto, i romanzi storici !”

– La “attitudine” al riuso è molto presente nella tua attività artistica, e questo romanzo ha anche generato una mostra, in giro per l’Italia, “Atlante degli abiti smessi, referti e reperti di altre nature.”
“Mi definisco una cantascorie. La mia è una poetica degli scarti. Sono irresistibilmente attratta dalle cose rotte o imperfette, abbandonate, dismesse, che riconverto in artefatti. E’ quello che in fondo faccio con le parole, ridando vita a quelle in via di sparizione, o spostandole da un ambito all’altro per reinverginarle. O riciclarle, rimontandole. Questo è un romanzo sull’arte della riparazione. Come si fa col Kintusukuroi, l’antica tecnica di restauro della ceramica con l’oro, anche le ferite dell’anima – dice la protagonista – puoi rinsaldarle col filo d’oro della bellezza, che non solo ricuce ma decora , e dà valore alla frattura. Più che pop artist, oggi mi sento una plot artist . Perché mi interessa la narrazione delle cose. Ogni cosa, ogni frammento è un giacimento di vite. Infinite. Avremmo tutti bisogno, giocando con Stendhal, di un’educazione sedimentale”.

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