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GIOIA MIA di Tea Ranno (Mondadori) – recensione

giugno 6, 2022

Gioia mia - Tea Ranno - copertina“Gioia mia” di Tea Ranno (Mondadori)

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In libreria da domani, martedì 7 giugno, “Gioia mia” (Mondadori): il nuovo romanzo di Tea Ranno

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di Emma Di Rao

Pietre perse, così alla fine l’avevano chiamata, quella terra in pizzo alla collina”.
Nel nuovo romanzo di Tea Ranno, “Gioia mia”, edito da Mondadori, ad avviare la narrazione è, ancora una volta, una prospettiva dall’alto, segno di quella verticalità che si traduce in una visione intessuta di cielo e di mare o, più semplicemente, immagine che la scrittrice attinge dai luoghi  amati del suo vissuto.
Devastata dalla furia della pioggia, del vento e del fuoco, quella terra si era meritata la definizione di pietre perse a causa della sua spettrale e desolata aridità che il lettore può cogliere anche nel ricorrere di suoni sibilanti contenuti nei termini che la descrivono. Ad attenuare una raffigurazione così cupa interviene l’atmosfera, improntata al più tenero affetto, che si instaura fra don Nino Sapienza e la nipote, Luisa Russo, cui egli si rivolge con il lusinghiero e soave “gioia mia”, espressione da cui già nelle prime pagine del romanzo si evince la ricca umanità della protagonista.
Col passare del tempo, la tenuta che il nonno è stato costretto a vendere diviene oggetto di struggente e rabbioso desiderio da parte di Luisa che, in età adulta, la riceverà in dono dal marito Carmine Acquaforte. Priva ormai di valore e acquistata per poco denaro, la tenuta, incastonata in un paesaggio di straordinaria bellezza dell’isola di Sicilia, induce tuttavia nella protagonista il timore che venga riaperta una vecchia ferita e che riaffiori ciò che lei “aveva murato in una delle stanze più riposte del cuore”. Da qui la scelta consapevole e frequente di ‘scordarsene’, significativa anticipazione lessicale di una diversa ‘scordanza’ che nel dispositivo narrativo avrà ben altra causa e ben altri effetti. Il miracolo, ovvero “la trasformazione di quattro pietre perse in una tenuta benedetta da Dio”, viene a configurarsi come l’esito della “capacità di sogno” che proietta Luisa nel futuro e la spinge a risvegliare “sotto la crosta riarsa i semi della risorgenza”. Ed è l’attribuzione del nome Castidda – perché “la terra è femmina”- , a conferire un’anima a quel luogo, come si deduce dal brivido che viene a scuotere ogni suo elemento, dalle pietre agli arbusti e ai passeri, tutti ugualmente stretti in “un cerchio d’amurusanza”. Quell’amurusanza che nell’universo di Tea Ranno è disposizione d’animo e valore inarrestabile sia che venga percepita come catena solidale che si snoda di amicizia in amicizia sia che assuma la forma di un cerchio in grado di cingere in un unico abbraccio quanti si dedichino a coltivarla.

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Tea Ranno

Al tempo della rinascenza partecipano le amiche della castiddota , “amiche per davvero e non tanto per riempirsi la bocca con la parola amica”, che danno vita ad una variegata molteplicità di voci ognuna delle quali pone il rapporto amicale al centro del proprio sentire e del proprio progetto di vita: come il personaggio di Violante  cerca di spiegare al marito Toni Scianna, il forte legame sorto fra le sette donne che avevano reso celebre il ristorante Il Piacere aveva contribuito a rafforzare in ciascuna di loro “la considerazione di sé”, quasi in una sorta di riconferma identitaria. Non stupisce dunque che siano disposte a stendere una rete di protezione attorno a Luisa e che decidano di presidiare la Castidda quando sarà minacciata da figure avide e corrotte.
Il dipanarsi degli eventi relativi alle subdole manovre escogitate da loschi individui per impadronirsi della tenuta viene rappresentato con incredibile verve narrativa, accentuata dalla vivacità icastica dei dialoghi che concorrono ad evidenziare l’indole dei vari personaggi. Eventi che nella tessitura del romanzo svolgono anche la funzione di preparare il lettore al fulcro della narrazione, ovvero a quanto sconvolgerà l’esistenza di Luisa, oppressa e attanagliata da un matrimonio del tutto simile a una prigione.
Tale episodio affonda le proprie radici in un ‘luogo’ caro all’immaginario artistico della scrittrice: più che un luogo, una condizione immateriale e remota che in “Terramarina” si collocava tra il sonno e la veglia e che in “Gioia mia” assume confini ancora più incerti e sfuggenti, suscettibili di essere comunque attraversati in virtù della contiguità tra la sfera vigile della coscienza e quella insondabile del subconscio, tra l’unilateralità del mondo cosciente e la complessità della psiche. Confini che divengono però muri invalicabili quando intendiamo difenderci dal ricordo di un’esperienza dolorosa, finché non interviene un nuovo trauma a scardinare quella chiusura autoconservativa. Come accade alla protagonista che ha rimosso e pietrificato nel fondo più buio dell’anima un tremendo dolore, sino a quando non subentra un malore improvviso che fa vacillare  le difese erette a protezione: dinanzi alla parola ‘gemma’, sentita per caso in mezzo al rombo assordante della strada, “l’animo in subbuglio e un velo di sudore sulla fronte” danno inizio a una crisi cui fa da sfondo l’ora della canicola, “l’ora morta dei diavoli e delle ombre”.
Spezzato, poetico e quasi lunare, il linguaggio attribuito dalla scrittrice al personaggio riflette la sofferenza di un animo frammentato i cui elementi riaffiorano nel tentativo di una faticosa ricomposizione.
“Casca. E tutto si confonde”. Ma il cadere di Luisa sarà la condizione necessaria per il risanamento delle ferite, allo stesso modo in cui il confondersi della mente e il suo smarrimento costituiranno la premessa per fare infine chiarezza.
Nel sonno, che non “fu vero sonno”, durante il ricovero in ospedale, parti sommerse, rimaste a lungo impigliate nel fondo della coscienza, iniziano a risalire, mentre la protagonista torna a quel tempo che “il mare della scordanza aveva inghiottito”. In questo caso, l’affabulazione stessa restituisce presenza a quel che è stato cancellato o dimenticato: con l’energia inventiva e fervida della sua immaginazione, Tea Ranno incorpora così il silenzio dell’oblio come materia stessa del racconto e conferisce la forma di una presenza al passato di Luisa. L’espediente cui l’autrice sapientemente  ricorre è il mutamento della voce narrante: al narratore onnisciente che controlla e domina la creazione letteraria nel suo farsi viene sostituita una voce che si esprime in  prima persona, un ‘io’ che muove timidamente i primi passi nell’affermazione di sé, riappropriandosi innanzitutto dei ricordi dell’infanzia: “Mio nonno si fa largo tra casse di biscotti e rami secchi”.
In un tempo interamente soggettivo, scandito da emozioni fluide e sussulti dell’anima, Luisa intraprende una lotta singola e strenua contro l’oblio, mentre un sonno che è condizione limbica, quasi uno “sfilarsi dell’anima”, le consente di non avvertire più le sofferenze inflitte dal marito e di interrompere il furto di tempo patito fino a quel momento. Ed ancora una volta, il registro espressivo si presta ad accogliere le segrete visioni di Luisa, come la ricerca di “terre che lei sola sa” o la ricerca del “filo dei sogni di prima”, visioni associate a nuove percezioni sensoriali e a nuove modalità di vita.
Mentre si snoda questa vicenda tutta interiore, “la vita continua a camminare” nel tempo oggettivo in cui è immersa la comunità del paese, prima insignificante e adesso meritevole di rispetto grazie ad una “azione congiunta di tutte le forze buone”. Persino l’ottuso e infido Carmine Acquaforte conserva una qualche vaga consapevolezza del bene cui ha rinunciato, facendosi sorprendere da una punta di nostalgia per le ali un tempo possedute con cui avrebbe potuto volare di nuovo “sopra la munnizza”.
Emerge, inoltre, tra le pagine del romanzo la consapevolezza della caducità terrena e dell’azione corrosiva del tempo, come si evince, ad esempio, da “Ricordati che la vita è un soffio” – così Toni Scianna si sente dire in sogno – o da “Il tempo è come la farina” –  rammenta il nonno alla nipote -, ma soprattutto dal timore che alcuni personaggi avvertono nei confronti della vecchiaia e della morte. Un timore che corrode anche la tracotanza del marito di Luisa, instillandogli “mali pensieri e minchiate nostalgiche”.
A tale concezione pessimistica fa da contraltare il richiamo costante a quei valori che sono custoditi dal  “congegno che misura gli attimi ma anche i sospiri, quel camminare dentro la vita che significa ora e poi domani”, efficace metafora con cui don Nino Sapienza indica il cuore che ci consente di “camminare nella contentezza” e che “ci dà conto non solo del tempo ma della sentimentalità”.  Anche la dimensione fiabesca che pervade alcuni ‘luoghi’ del romanzo sembra svolgere la funzione di smaterializzare il reale, sottraendogli peso ed amarezza, mentre in altri casi, sotto la scorza fantastica, allude al rinascere della speranza e della gioia. Ne costituisce un esempio di aerea levità la descrizione dell’incantesimo di cui è preda la Castidda in concomitanza con la caduta di Luisa, durante il quale il tempo subisce una strana e inspiegabile sospensione. Incantesimo che viene sciolto col modulare “un fischio leggero”, forse di montaliana memoria, da una figura femminile compattatasi dai chicchi dell’albero di milliccuccu.
Ed ancora, non sarebbe errato intravvedere nella “figura come di femmina magnifica che puntò verso il cielo di Siracusa” l’anima stessa della Castidda  e supporre che l’autrice abbia con essa dato vita a una dimensione ariosa e libera in cui uomo e natura vivono finalmente in una perfetta simbiosi. Una sorta di miraggio da opporre, sia pure nella dimensione fantastica, alla contemporaneità, segnata dai veleni dell’inquinamento e dalla “simenza di morte”.
“Tornata da terre lontanissime”, la nuova Luisa continua a percepirsi come “un malo assemblaggio di pezzi sparsi”. Da qui, quel desiderio di solitudine che la induce a voler “stare sola…lei con lei”, espressione che potrebbe adombrare – ma è ipotesi immaginifica – un ulteriore significato rispetto a quello letterale dello stare con se stessi o potrebbe persino alludere a una seconda, misteriosa figura femminile.
Dopo l’orrore di una scoperta che in un vorticoso climax si tinge di tinte drammatiche e si materializza in un grido che in Luisa sale “da un pozzo di dolore”, ci si avvia verso la conclusione. Una conclusione che incanta e trascina il lettore rendendolo partecipe del magico sconfinamento vissuto dalla protagonista quando decide di immergersi nella limpida trasparenza delle acque del mare nel cui fondo regna il silenzio e nei cui abissi  tacciono i rumori del mondo di sopra.
In questo passo, in cui la prosa assume decisamente i tratti di un discorso lirico, si affollano immagini irreali, cangianti e incorporee che scaturiscono da una visionarietà metamorfica, ma che sono anche poetiche metafore dell’aspirazione alla gioia e alla pacificazione interiore.
Nuove speranze e freschi germogli possono adesso sbocciare nel cuore di Luisa, mentre si consolida la sua affinità con “il vecchio che ripara i ricordi” a cui la unisce l’esperienza dell’attraversamento del buio al fine di  trovare la luce.
Lo sguardo limpido e profondo dell’autrice, sempre attenta alla realtà e a tutto ciò che può contribuire a sanarla, si posa anche sulla scrittura e sulla sua funzione risarcitoria, salvifica e riparatrice. Basti pensare al brano in cui Giona Gur afferma che “riparare i ricordi è un poco come scrivere, tu cuci i destini di sconosciuti, e intanto che li cuci li chiarifichi a te e a chi poi li incontrerà” o al brano in cui Agata manifesta l’intenzione di aprire una libreria che chiamerà Carta scritta e che sarà  “covo di anime caparbie impegnate a darsi conto di esistere in valore e non come ombre…”.
Non c’è alcun dubbio che Tea Ranno ci abbia offerto con il suo ultimo romanzo un’ulteriore, raffinatissima prova di scrittura letteraria in cui la pienezza concreta del reale sfuma in contorni ineffabili ed autentiche epifanie rivelatrici, sia che si tratti del movimento di una foglia spostata dal vento sia che si tratti di un’orchidea trovata nella sabbia.
Infine, pur consapevoli del fatto che ogni testo si presta ad una lettura non univoca per le molteplici valenze allusive sottese alla narrazione, riteniamo che dalle pagine di “Gioia mia” affiori soprattutto un significato: per rinascere occorre allontanarsi dalla terra, abbandonarsi al flusso delle onde e sperimentare la profondità del mare. Nei suoi abissi è infatti possibile ritrovare un pieno di meraviglie, di speranze e di sogni che ci appartengono e che credevamo perduti.
Fuor di metafora: è necessario a volte smarrirsi perché ci si possa ritrovare, è necessario a volte precipitare nell’abisso perché si possa tornare in superficie con una consapevolezza tutta nuova di sé.

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Gioia miaLa scheda del libro: “Gioia mia” di Tea Ranno (Mondadori)

In cima a una collina che guarda l’Etna da un lato e il mare dall’altro, sorge una masseria circondata da uno spicchio di paradiso: terrazzamenti carichi di ulivi, fichi e pruni, orti traboccanti di erbe e prati fioriti a perdita d’occhio. Questa tenuta magnifica è frutto del sudore e della tenacia di Luisa Russo, che si è intestardita a trasformare le “quattro pietre perse” che le ha regalato suo marito in un castello. Anzi, in una castidda, perché quella terra è femmina, su questo Luisa non ha dubbi. Femmina e frutto dell’amicizia tra femmine, perché se la Castidda esiste è grazie al successo del ristorante che ha aperto insieme ad Agata, Lisabetta, Violante, Lucietta e le altre amiche sue, conosciuto in tutta la Sicilia per i piatti deliziosi e l’atmosfera amurusa. Tutta questa intraprendenza femminile dà parecchio sui nervi a suo marito Carmine, che la Castidda non può nemmeno sentirla nominare. Gli speculatori edilizi, invece, non riescono a staccarle gli occhi di dosso: il più agguerrito, presidente di una società assai poco limpida, ci vede già un albergo di stralusso, e per aggiudicarsela farebbe letteralmente carte false. Alle sue prepotenze mafiose Luisa resiste per mesi, finché, dopo l’ennesimo colpo basso, qualcosa le si rompe in petto: un sussulto, una vertigine, e in un attimo è a terra, rigida come una pupa di legno.

La corsa in ospedale, la rianimazione, le prime notizie incerte: Luisa è salva, è stabile, ma, per il momento, dorme. E mentre Carmine in sua assenza cerca di sbarazzarsi della Castidda e le amiche, per impedirglielo, la occupano come un fortino, mentre il figlio Giulio e il dottor Giona vegliano su di lei, Luisa continua a dormire. E, dormendo, va indietro nel tempo e ripesca brandelli di vita che la memoria aveva cancellato: certe giornate felici d’infanzia con quel nonno che la chiamava “gioia mia”, il buco che la sua morte le ha scavato nel cuore, quello strano gelo addosso il giorno del matrimonio con Carmine… Fino a che da quel mare di scordanza viene a galla il ricordo riposto più a fondo, la ferita che brucia di più.

Tea Ranno ci regala un altro viaggio – pieno di saliscendi impetuosi e approdi inaspettati – nella sua, ormai celebre, terra d’amurusanza, quel posto meraviglioso e assolato in cui le pietre perse si trasformano in castelli, i ricordi si riparano con ago, filo e gentilezza, e le amicizie femminili salvano la vita.

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Tea Ranno è nata a Melilli, in provincia di Siracusa, nel 1963. Dal 1995 vive a Roma. È laureata in giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha esordito con Cenere, uscito per e/o nel 2006, finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti. Successivamente ha pubblicato i romanzi In una lingua che non so più dire (e/o, 2007), La sposa vermiglia (Mondadori, 2012), vincitore del premio Rea, Viola Fòscari (Mondadori, 2014), Sentimi (Frassinelli, 2018), L’amurusanza (Mondadori, 2019) e Terramarina (Mondadori, 2020), che ha vinto il premio Città di Erice.

 

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