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Posts Tagged ‘Yari Selvetella’

VITE MIE di Yari Selvetella (Mondadori) – recensione

Vite mie - Yari Selvetella - copertina“Vite mie” di Yari Selvetella (Mondadori) – recensione

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di Daniela Sessa

La prima sequenza dell’ultima scena di “Vite mie” di Yari Selvetella ha per titolo “La bolla”. Che è più di una metafora. La bolla è lo spazio asfittico e asfissiante in cui si muove Claudio Prizio, il protagonista del romanzo, una sorta di antropomorfizzazione della resilienza. Ha una famiglia allargata dal dolore prima che dal destino, cerca di tenerla unita mentre tutto dentro di lui si sfascia. Sebbene sia terribilmente ozioso citare l’incipit di “Anna Karenina”, per questa storia è quasi d’obbligo o, comunque, arriva ossessivo per quel distinguo tra l’infelicità umana e quella personale. In “Vite mie” sembra che il doppio piano tolstojano possa coincidere quando l’odissea delle vite incontrate da Claudio svela la sua natura spettrale, onirica, speculare. Ecco quel possessivo “mie” che ingloba nella vita di uno (un padre, un marito, un vedovo, un giornalista o scrittore, un uomo) tutte le altre, ugualmente slabbrate, spesso paurose come accade negli incubi. In punta di grammatica, il romanzo di Selvetella – che abbandona la levità di “Le regole degli amanti” perché la materia ironica qui non riesce a maneggiarla (o non vuole?) – si incista dentro il plurale delle vite e può concepirsi solo dentro esse. Dentro la bolla, appunto. Una bolla condominiale perché ogni vita è un episodio con un ballatoio narrativo in cui una incrocia l’altra, anche solo per un saluto. Il condominio non è uno sfizio retorico: Claudio, a un certo punto, comincia a girare case da acquistare ed è in quelle case o nel tragitto per andare a visitarle che le vite gli appaiono insieme a chi ne è parte. Leggi tutto…

LE REGOLE DEGLI AMANTI di Yari Selvetella (recensione)

“Le regole degli amanti” di Yari Selvetella (Bompiani)

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Un decalogo antitetico per coppie vere

di Daniela Sessa

Il testo più noto sulle regole dell’amore è il Kamasutra: nel quinto libro si danno i precetti, a dire il vero opportunistici, per sedurre le mogli altrui (meglio se l’altrui è un nemico). Un secolo prima Ovidio con i “Remedia amoris” aveva composto un manualetto, scandaloso per la corte augustea, in cui consigliava le strategie per sfuggire al coinvolgimento sentimentale. A Denis Diderot libertino viene attribuito un romanzo, “Thérèse Philosophe”, sulle peripezie sessuali di una sedicenne accompagnate da dissertazioni sull’esistenza, l’amore, la verità. Solo tre esempi per dimostrare quanta attenzione la letteratura abbia dedicato a regolamentare il non regolamentabile: l’amore. Si sa, l’amore è l’eco della libertà, l’espressione del desiderio, la maniera per sottrarsi alla morte o per sublimarla. L’amore è fuggevole (non si dice che in amore vince chi fugge?), richiede impazienza e fantasia, follia: “ti amo da impazzire” è frase cult. Provare a ingabbiare l’amore dentro un elenco di cose corrette o scorrette, convenienti o sconvenienti, perfino di diritti e doveri appare un compito se non arduo almeno impegnativo. Per il legislatore si tratta di normare coppie sposate o di fatto, per il prete di benedire gli anelli, per marito e moglie di armarsi di santa pazienza. Per uno scrittore vuol dire fingersi il geometra di Dante che in Paradiso fa quadrare il cerchio. Impegnativo, appunto. Leggi tutto…

YARI SELVETELLA racconta LE STANZE DELL’ADDIO

YARI SELVETELLA racconta il suo romanzo LE STANZE DELL’ADDIO (Bompiani)

[tra i dodici libri del Premio Strega 2018]

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di Yari Selvetella

Non ho un posto per scrivere, non ho un’ora a disposizione. Ho un quaderno che mi piace, di marca Spalding, di forma quasi quadrata, con carta gommata. Perdo sempre la penna, ma ne trovo un’altra. Mi siedo nella sala interna del Caffè Italia, a piazza Santa Croce in Gerusalemme. Ascolto attorno a me i discorsi di agenti immobiliari, di coniugi pensionati, di sfaccendati. Indosso occhiali da sole, almeno per qualche minuto. In genere in motorino piango, poi una volta seduto aspetto che passi l’irritazione agli occhi e agli zigomi, che non punga più quell’acido. Quando non ho più lacrime mi tolgo gli occhiali e scrivo.
La mia sedia nel bar è la sedia della sala d’attesa del reparto. Il brusio mi concentra, le voci mi convincono che il buio non è la mia unica patria. Devo dirmi tutto, per convincermi che sia veramente accaduto. Su, una parola appresso all’altra. Così e così. Così e così.
Devo vincere il vizio di riprendere la solita strada che passa il Tevere e raggiunge Prati, si inerpica sull’Aurelia antica fino a Boccea e poi da lì taglia la pineta e all’improvviso si fa imbuto, proprio all’altezza dell’Ospedale. Lì proprio si stringe il budello, lì si complica lo scorrimento. Lì continuo a entrare, sempre; e non ne posso più. Leggi tutto…